Siamo in estate, le attività di Vidya si sono concluse. Ecco qui un estratto del primo seminario del sabato mattina dello scorso anno dal tema: “Le basi dello hathayoga”. Il titolo è premessa dei contenuti: le basi, lo yoga e lo hathayoga.
Quale yoga?
Al giorno d’oggi lo yoga è diventato un fenomeno di massa, diversamente dagli anni ‘90 quando iniziai a praticare ed insegnare. Non nascondo che questo marasma di proposte yoga mi procura un certo disagio. Questa esplosione e diffusione dei più disparati metodi di yoga è accompagnata dalla continua esigenza di affermare una sorta di superiorità di tale o tal’altra pratica. Il mio yoga è quello tradizionale, il mio insegnante è proprio un maestro, il mio yoga è quello vero, il mio yoga fa bene alla schiena, fa dimagrire, tonifica o rilassa e via andare. Vorrei allontanarmi da queste derive egoiche di affermazione narcisistica, trasversali agli ambienti così come alla storia e alla cultura, per comprendere sempre meglio quali siano le basi dello yoga che pratico e insegno. Lo yoga che mi è stato trasmesso (con grande fortuna) e che in me, Barbara, vibra.
Ebbene lo yoga è un’esperienza non solo soggettiva ma intima, richiede pratica e studio.
Citando il Prof. Gianni Pellegrini, esperto di sanscrito e vedanta, la cultura e la filosofia indiana a fondamento degli yoga presuppongono che non ci sia separazione tra teoria e prassi, sono un tutt’uno inscindibile. Invece, nella nostra cultura scientifico-materialista, si presume proprio l’opposto ovvero una completa separazione tra teoria e pratica che noto riversarsi anche nello yoga cosiddetto moderno.
Infatti, o si fa hathayoga o si fa meditazione, o si fa asana o si fa zazen reiterando un’illusoria separazione connaturata all’uomo.
Mi piacerebbe dunque percorrere una strada che metta in luce i tratti che accomunano piuttosto che separano, a partire dalla tradizione.
Che cosa accomunava le diverse marga dello yoga?
Già nella tradizione ritroviamo diverse marga – vie: bhakti yoga, la via della devozione; jnanayoga, la via della conoscenza; hathayoga, la via dell’energia; mantra yoga, la via del suono; layayoga, la via della dissoluzione. Che cosa condividevano alla radice?
1 – Tutto è sofferenza – sarvam dukkha evam
2 – La legge del karma quindi l’esistenza continua al di là della mia vita personale
3 – La liberazione dalla sofferenza – moksa
Non mi addentro nella insidiosa questione del karma se non per indicare una faccenda che rimane irrisolta sia in una visione religiosa che prevede un al di là sia in una visione materialista che estingue tutto in un al di qua. La morte, uno dei grandi temi dell’umanità. Ci distraiamo dalla sua paura fatto salvo poi ritrovarsi sguarniti di fronte all’esperienza della propria morte o di quella di qualcuno che ci è vicino.
La prima questione tutto è dolore, anzi per i saggi tutto è dolore, per coloro che vedono bene, che discriminano – viveka. Di quale dolore si tratta? Per noi sofferenza deriva dal non riuscire ad ottenere ciò che voglio e, al contrario, sono felice quando lo ottengo. Questa è proprio la radice della sofferenza ossia pensare che il mio dolore dipenda dall’ottenere o non ottenere ciò che desidero. Questo pensiero o vritti reitera il mio dolore perché permango in un circolo vizioso che mi spinge ad inseguire ciò che desidero e rifuggire ciò che non desidero – raga e dvesha. Il punto centrale è un altro: non so, non capisco, non comprendo – avidya. Il punto centrale riguarda la mia realtà esistenziale umana; ciò non implica ovviamente essere degli infelici nella vita e non cercare il proprio posto nel mondo o l’espressione dei propri talenti.
Lo yoga è dunque una via soteriologica ossia di risoluzione della sofferenza sebbene non ci sia garanzia alcuna di riuscita, non è un’esercitazione o un allenamento. Parliamo di vita e di umanità.
Se dico yoga, cosa intendo? E hathayoga?
Il termine yoga non viene quasi mai tradotto, lo diamo per scontato. È un metodo, una via, una religione, un insieme di posizioni del corpo? Lo yoga è, in termini molto ampi, una visione del mondo, dell’universo e di sé stessi ovvero dell’essere umano- darsana. Yoga si occupa della relazione che c’è tra me e il mondo e tra me e me.
Detto questo ci sono delle specificità, noi tutti siamo diversi perciò diverse sono le vie e gli strumenti dello yoga; non occorre omologarsi per praticare, occorre trovare una pratica cui corrispondere.
Affrontiamo allora il tema dello hatha yoga, tradizione millenaria che ha subito le trasformazioni necessarie al tempo. Lo hathayoga attuale non può certo essere quello di allora, praticato da asceti che vivevano in una grotta o nella foresta, cibandosi di offerte e praticando tutta la giornata e forse pure la notte. Che cosa è specifico nello ha tha? Il nome stesso ci fornisce un’indicazione: ha- tha, sole-luna; affrontare gli opposti, le polarità secondo una visione di fatto non duale della realtà. Visione opposta alla nostra occidentale per cui o tutto è materia e lo spirito non c’è oppure, in una ipotesi leggermente migliore, qui è materia qui è spirito. L’altro tratto specifico dello hathayoga vede possibile e necessaria una pratica in cui il corpo senziente è campo di conoscenza. Il corpo è un condensato di tutte le potenzialità, una realtà stratificata di più corpi – kosha –corpo materico, mente, coscienza, soffio vitale e significato che nello yoga vengono immersi in un processo di trasformazione quasi alchemica.
Tutto quello che si qualifica yoga, è yoga?
Pur rinnovando le intenzioni iniziali di non dare rilievo alle questioni sul metodo migliore di yoga o quello tradizionale o il più vero, vorrei però evidenziare che non va tutto bene e che questo proliferare del nome yoga in ogni dove non è privo di conseguenze. Non si tratta di corporativismo ma di mettere in luce le possibili ricadute che un certo tipo di attività denominata yoga ed un certo modo di divulgarla hanno sulla persona. Ad esempio, mi consigliano di praticare yoga per migliorare la postura ma dopo un po’ di tempo non ho miglioramenti, allora lascerò perdere e penserò che lo yoga sia completamente inutile oppure di non essere adatto magari perché non abbastanza giovane o snodato. O un altro esempio ancora, mi pongo domande su me stesso, patisco un disagio che non trova risposta, vorrei intraprendere una direzione di crescita personale e frequento un corso di yoga incentrato sulla prestanza fisica, anche in questo caso lascerò perdere lo yoga o, ancora peggio, la ricerca. Questo è il rischio più grande: precludersi delle potenzialità di consapevolezza di sé. E ancora, se yoga è una strada di ricerca di connessione con le proprie profondità, invece mi ritrovo a fare pratica di gara con me stesso, gonfiandomi l’ego a dismisura e rinnovando l’attaccamento ai condizionamenti, temo che alcuna trasformazione interiore sarà possibile.
È importante quindi sviluppare uno sguardo critico e lucido anche quando si è sulla strada giusta. Un’appropriata indicazione ci viene dal contrastato Osho: “Se il maestro non ti corrisponde più, allora non giudicare e non criticare ma cambia strada perché non bisogna perdere del tempo”.
Che cosa non è yoga?
Mi è capitato di incappare in un video dimostrativo di una delle neonate pratiche di yoga e alcool, come il beer yoga o wine yoga o gin yoga. Niente di personale ma qualcosa di bizzarro c’è, se di yoga si tratta.
Se l’adattamento della pratica yoga ai tempi, alla cultura e all’individuo è auspicabile, non lo è quello che si basa su logiche di mercato e che ne storpia la natura.
Non c’è un metodo o il metodo, però c’è chi insegna, chi impara e gli strumenti che si condividono. Lo strumento di pratica nello yoga non è un mero strumento ma anche un punto di arrivo, un’esperienza; l’esercizio yogico assomiglia più agli antichi esercizi spirituali piuttosto che a quelli ginnici. Nello yoga parliamo di comprensione, non di una conoscenza transitiva o un ottenimento di benefici che sottende una logica di causa ed effetto. È vero che praticando yoga mi rilasso, la postura migliora, la schiena si ristora ma si può ridurre (ridurci) tutto a questi benefici? Tanto per ridere, sarebbe come se io andassi in Chiesa per potenziare il muscolo del quadricipite con costanti genuflessioni; certo, lo potenzio ma è il caso di andare in Chiesa?
Insomma, i tempi attuali, diversi da quelli in cui lo yoga si è insediato in Occidente, ci offrono tantissime opportunità ben più divertenti ed efficaci dello yoga per muoverci, per stare bene, per guarire, per risollevare la psiche e migliorare la postura. Perché scomodare lo yoga?
In quel video di pratica di yoga e alcool, c’è ancora qualcosa che mi ha colpito: si parla di awareness – consapevolezza. Consapevolezza di cosa? Mi pare ci sia una distorsione del significato di consapevolezza, talvolta lo si sovrappone al termine attenzione. Certamente anche facendo danza o pilates incremento l’attenzione al corpo e ai gesti ma la pratica di yoga non è un esercizio per sviluppare la concentrazione, sebbene sia un’abilità necessaria al suo svolgimento. Lo yoga è un percorso “a togliere” ciò che sono e che so; che cosa resta? Sapere di esistere.
Mi sono pure chiesta perché tutti questi yoga con l’alcool. In fondo, niente di così innovativo. Nel tantra c’erano due vie, della mano destra e della mano sinistra, una di osservazione di precetti morali e l’altra trasgressiva sino alla sublimazione dell’energia sessuale in quella spirituale. I praticanti facevano azioni contro le regole morali condivise, come meditare nei cimiteri a cielo aperto o mangiare cibi proibiti, per suscitare un’esperienza di scardinamento dei meccanismi di controllo mentale che mantengono la nostra identità individuale. Per suscitare quindi un’esperienza prorompente di consapevolezza. Questi nuovi metodi edulcorati assomigliano di più ad una mezza ginnastica per anziani in cui bevi un goccetto. Niente di incredibilmente trasgressivo.
Questa diffusa molteplicità di metodi yoga rispecchia forse anche un certo disimpegno e una costante distrazione che caratterizzano i nostri tempi. Nella tradizione stessa è previsto un periodo di tempo di ricerca “in orizzontale”, provo questo e quello, poi la dimensione di ricerca dovrebbe diventare “verticale”. Come l’olio che versato su un tavolo si espande a macchia fino a che trova un buchino che fa precipitare il liquido verticalmente; cado dentro di me e dopo torno nel mondo.
Infine, la giovane insegnante del famigerato video parla di una dote di extrarelaxation derivante dal bicchierino di alcool. Strano, lo yoga è un processo di decondizionamento e di eliminazione degli attaccamenti. O almeno della riduzione della loro potenza sul nostro complesso psico-fisico. Non sappiamo dove arriverò, a quale profondità, nel frattempo avrò percorso una strada di pulizia e certezza. All’inizio della pratica si ha bisogno di aiuto, dell’insegnante, di strumenti più estrinseci come le asana ma non bisogna creare dipendenze.
Sadhana: la strategia in pratica
Sino a qui abbiamo messo in luce per negazione alcuni elementi: lo yoga è una strada di decondizionamento, di libertà, di consapevolezza, un cammino soggettivo ed autoportante; un percorso progressivo che ha un orientamento, un passo dopo l’altro verso una direzione. È una strada verticale, quanto profonda non sappiamo. Ora entriamo nella strategia pratica e nei suoi strumenti.
Da dove parto? Dove arrivo? Da e a me. Io e il mio corpo, che ringrazio. Io e il mio respiro, fedele compagno di tutti gli istanti di vita. Io e la mente, dimensione percettiva in azione. Più sarà rigorosa, lucida e totalizzante la percezione più potrò inoltrarmi in pratiche difficili e verificare se permane uno stato globale ricettivo e non reattivo. Non si inizia da pratiche difficili perché non faranno altro che stimolare reazioni – vritti.
Un’ultima considerazione sul rilassamento di cui tanto si parla nello yoga. Più che rilassamento nello yoga sutra di Patanjali dice allentare lo sforzo, io posso anche sostenere un’azione di grande difficoltà e, al contempo, allentare lo sforzo. Può darsi che il mio stato non coincida con l’immagine stereotipata dello yogin distaccato e calmo, non ci sarà agitazione ma ci sarà uno stato di veglia. Lo yoga serve a svegliarsi. Detto ciò, per la vita stressante che facciamo è necessario imparare a rilassarci e a rallentare il ritmo mentale. Ma non è il fine.
Antonio Nuzzo ben descrive lo stato meditativo: non zombi immobili seduti a gambe incrociate ma animali selvatici, saldi e attenti abitati da un’energia vitale sveglia e lucida. Queste per esempio sono due delle polarità opposte di cui abbiamo parlato nella descrizione dello hathayoga, il totale rilassamento e l’azione altresì il corpo e la mente, conscio e inconscio, la parte destra e la parte sinistra del corpo.
Le pratiche da frequentare sono molte. Per iniziare yama e nyama come mi dispongo alla pratica; le pratiche di purificazione, le asana – posture, quelle di pranayama il soffio verso l’assenza di soffio, le mudra più dirette al sistema nervoso centrale, pratyahara la percezione verso di me sino alla meditazione. Fino al pratyahara sono pratiche che posso esercitare e curare, dopo posso solo dispormi ad accogliere eventuali doni quali lo stato meditativo. Come in amore (perché lo yoga è una storia di intimità): sono pronto e predisposto, il cuore custodisce una persona ma non è detto che accada l’incanto.
Grazie a tutti i partecipanti per la condivisione e l’ascolto.
Buona estate.